Usa, Italia, Spagna: chiedono censura a Google
Sempre più Stati, Italia inclusa, chiedono a Google di rimuovere
contenuti online, soprattutto politici. In testa ci sono gli Stati
Uniti, con 6.192 richieste. Ma il motore di ricerca soddisfa meno di una
richiesta su due. É tutto scritto nel "Transparency Report" del colosso
di Mountain View.
Quando nel 2010 Google ha iniziato a pubblicare il suo "Transparency
Report", cioè il rapporto che dettaglia le domande di rimozione di
contenuti dai servizi del colosso di Mountain View da parte dei governi,
l'azienda ha reso noto al pubblico che parte delle circa mille
richieste riguardava contenuti politici. Oggi all'analista Dorothy Chou
non restano molti dubbi: «Speravamo fosse un'aberrazione. Ora sappiamo
che non lo è», scrive nel post sul blog ufficiale di Google che ne
presenta la quinta edizione, appena pubblicata.
Non è il numero di richieste provenienti dalle autorità di tutto il mondo a essere definito «preoccupante»:
tra le 1.062 riguardanti il periodo luglio-dicembre 2009 e le 1.028 tra
luglio e dicembre 2011 (i dati resi noti in queste ore) non c'è una
differenza sostanziale. A preoccupare è che il tentativo di ottenere
censure a sfondo politico è divenuta la regola, più che l'eccezione. «È
allarmante non solo perché la libera espressione è a rischio», nota
Chou, «ma perché alcune di queste richieste provengono da paesi
insospettabili, democrazie occidentali tipicamente non associate alla
censura».
Dalla Spagna, per esempio, la cui authority per la protezione
dei dati ha tentato di ottenere la rimozione di 270 risultati di
ricerca collegati ad articoli di stampa e post su blog che
facevano riferimento a «individui e personaggi pubblici, compresi
sindaci e pubblici ministeri». Google, che l'alta corte spagnola ha
portato di fronte alla giustizia europea proprio sul tema del diritto
all'oblio, non ha obbedito. Ma anche dagli Stati Uniti, dove le
richieste di rimozione sono aumentate addirittura del 103% rispetto al
rapporto precedente: un incremento che non ha paragoni nel resto del
mondo e che si sostanzia nel tentativo di far sparire dal web, tra gli
altri, 218 siti ritenuti diffamatori e 1.400 video su YouTube per
presunte molestie. Un totale di 6.192 contenuti da rimuovere in 187
richieste diverse, cui Google ha ottemperato in meno di un caso su due.
Richieste di censura 'democratica' anche dalla Polonia (negate), dal Regno Unito
(cinque account YouTube rimossi – 640 video – per «promozione del
terrorismo») e dalla Germania, dove le agenzie governative hanno
ottenuto l'eliminazione di 898 risultati di ricerca contenenti critiche
nei loro confronti giudicate dalla giustizia «non credibili». In Canada
la richiesta più stravagante: censurare un video su YouTube di un
cittadino intento a urinare sul passaporto e mandarlo giù per lo
sciacquone. Anche alle potenze emergenti piace la censura politica. In
Brasile quattro profili legati alla campagna elettorale sono stati
eliminati su richiesta della giustizia, mentre in India – dove Google è a
processo contro il governo proprio per la responsabilità del
monitoraggio dei contenuti online – si è registrato un incremento delle
richieste del 49 per cento. Giungono poi le prime richieste anche da
quattro paesi che non l'avevano mai fatto prima, e cioè Bolivia,
Repubblica Ceca, Ucraina e Giordania. E in Tailandia il reato di lesa
maestà ha costretto Google a impedire l'accesso a un centinaio di video
all'interno del Paese.
Quanto all'Italia le richieste di rimozione sono state 28,
per un totale di 96 contenuti (68 sono video su YouTube), ma –
contrariamente al rapporto precedente – non ci sono stati tentativi di
censurare video satirici sulle disavventure sessuali dell'ex presidente
del Consiglio, Silvio Berlusconi. Il tentativo era, in ogni caso,
fallito.
Nel rapporto vengono dettagliate anche le richieste governative di ottenere dati – per esempio, l'indirizzo ip - sugli utenti che si collegano ai servizi di Google. Come nota Andy Greenberg su
Forbes,
anche qui le cifre sono in aumento: negli Stati Uniti, si registra un
più 37% rispetto allo stesso periodo del 2010 (e più 76% rispetto al
2009); nel resto del mondo, in un anno si è passati da 9.600 a 11.936.
Il tasso di accettazione è molto più alto negli States (93%) che altrove
(64% nel Regno Unito, 45% in Germania). Come spiega Chou a Greenberg,
per essere accettate le richieste devono essere in forma scritta,
provenire dall'autorità competente, riguardare un crimine ed essere
sufficientemente precise rispetto agli utenti e al lasso temporale
interessati.
Un'ultima sezione riguarda le richieste di rimozione di contenuti per violazione del diritto d'autore online.
Le richieste di rimozione di url sono – come si vede dal grafico
riportato qui sotto – in pressocché costante aumento e sono state oltre
1,8 milioni solo nell'ultimo mese. Il maggior numero di richieste di
rimozione riguarda, com'era facile prevedere, siti di
filesharing come Filestube (103 mila), Extratorrent (50 mila) e Bitsnoop (42 mila).
Il rapporto di Google ha il merito indubbio di ricondurre il dibattito sulla censura online a numeri e fatti,
piuttosto che a speculazioni e questioni di principio. Un esempio che
molte altre aziende, Facebook su tutte, potrebbero seguire per rendere
più trasparente il loro rapporto con gli iscritti, e con i loro diritti
fondamentali. Twitter lo ha fatto quando ha annunciato di documentare su
un apposito sito la censura selettiva dei tweet su base locale, e il
caso della sua resistenza alle richieste del governo pakistano – costato
un temporaneo blackout del servizio – dimostra che sta facendo sul
serio. Ma c'è anche chi chiede di più, anche a Google. Che «è stato
criticato per non avere rivelato molto circa la sua presunta partnership
con la National Security Agency dopo un attacco cinese ai suoi sistemi
nel 2010», scrive Greenberg. E l'azienda non ha ancora preso una
posizione su Cispa, la norma sulla cybersicurezza che renderebbe lo
scambio di dati tra gli intermediari e le agenzie governative molto più
semplice, nota ancora. Troppo, secondo i tanti critici. Anche su questo
la trasparenza non può che far bene.
Fabio Chiusi http://www.linkiesta.it/transparency-report-google#ixzz1y9KHBhga
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