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venerdì 9 ottobre 2020

Cos’è Core Web Vitals di Google

Cos’è Core Web Vitals di Google


COME INFLUENZERÀ L’OTTIMIZZAZIONE SEO
Ci sono elementi SEO che possono fare la differenza quando vuoi ottimizzare l'user experience e la qualità del lavoro in termini di qualità della pagina web. Ecco cosa devi osservare.

L’ottimizzazione dell’esperienza utente è il punto di partenza per ottenere buoni risultati in termini di web marketing: qualsiasi strategia diventa inutile se il sito web non risponde alle esigenze del pubblico. E oggi Google ci dà un nuovo parametro.

Cos’è Core Web Vitals di Google?

Le metriche più importanti per misurare e studiare le performance del sito web. Google da tempo ha implementato una serie di tool e riferimenti per valutare l’user experience di una pagina web. Non tutto ha la stessa importanza e oggi Mountain View ti dice che esistono alcuni parametri indispensabili.

Sono i Core Web Vitals, un gruppo specifico dei segnali di Web Vitals che si applicano a tutte le pagine di un sito web. E rappresentano l’esperienza reale dell’utente attraverso dati da registrare e interpretare.

Quali sono gli elementi registrati?
In primo luogo bisogna ricordare che i Core Web Vitals rappresentano aspetti registrati sul campo (non in laboratorio): cosa significa esattamente?

Sono dati di utenti reali che caricano e interagiscono con la pagina. Oggi, nel 2020, il tutto si concentra su tre aspetti dell’esperienza dell’utente. Vale a dire capacità di caricarsi in tempi ridotti, interattività e stabilità visuale.

Largest Contentful Paint (LCP)
Il tempo necessario per presentare (rendering) il contenuto più impegnativo della finestra. Per avere una buona esperienza utente, il Large Contentful Pain dovrebbe rientrare in 2.5 secondi dal momento in cui la pagina inizia il suo caricamento.

Cumulative Layout Shift (CLS)
Questo elemento indica la stabilità visiva di una risorsa web. Per capirci, è una metrica che prende in esame la capacità di una pagina web di rispondere in modo chiaro e concreto, da un punto di vista visual, alle esigenze di navigazione.

First Input Delay (FID)
Misura il tempo che passa tra la prima interazione dell’utente con un elemento della pagina e il momento in cui il browser è in grado di rispondere. Per avere una buona esperienza utente, le pagine devono avere un FID inferiore a 100 millisecondi.

Web Vitals come segnale di ranking
Sì, Google ha dichiarato questo: nei piani alti di Mountain View stanno combinando i Core Web Vitals con i parametri di ranking già presenti rispetto all’user experience.

Perché la combinazione tra SEO e UX non è una novità odierna. Già da tempo questi elementi influenzano il posizionamento in termini di search engine optimization:

Navigazione mobile.
HTTPS.
Velocità di caricamento.
Pubblicità interstiziali.

L’obiettivo di Google? Raffinare i segnali inserendo anche i Core Web Vitals tra i fattori di ranking vuol dire lavorare per dare risalto al concetto di contenuto di qualità: una risorsa che aiuti le persone ad accedere più facilmente alle informazioni.

Quando saranno attivi questi segnali di ranking?
Non prima del prossimo anno e con un preavviso di almeno sei mesi. Google riconosce il problema imposto dal COVID-19 e sa che molti imprenditori stanno affrontando un momento difficile, quindi non ti aspettare cali di posizionamento.

Ma non attendere. Per ora Google fornisce gli strumenti per iniziare a lavorare su questi punti. A proposito, quali sono i tool per intervenire sui segnali di Core Vitals.

Come misurare i Core Web Vitals
Sono così importanti, questi punti, che devono essere misurati da tutti i proprietari di un sito web e non solo da webmaster o esperti SEO. Ma come si ottengono questi parametri? Sono inclusi in tutti gli strumenti di Google già dedicati a questo compito:

Pagespeed Insight.
Google Lighthouse.
Chrome UV Report.
Crome DevTools.

La novità interessante: la Search Console perde il report dedicato alla velocità e implementa quello per segnalare i parametri Core Web Vitals e hai anche un’estensione specifica che puoi usare su Google Chrome: Web Vitals Extension.

Mentre quest’estensione ti consente di avere un riferimento immediato dei dati desktop, puoi usare il rapporto Core Web Vitals della Search Console per scoprire gruppi di pagine che hanno bisogno di una maggior cura dei parametri osservati.

Page Speed ??Insights (che sfrutta la tecnologia Lighthouse e Chrome UX Report) deve essere usato per l’analisi specifica, in modo da definire problemi field e lab.



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mercoledì 27 novembre 2019

Google e Facebook Condizionano la nostra Vita


Google e Facebook Condizionano la nostra Vita


Come i Social Media ti cambiano il Cervello

Un terzo della popolazione mondiale
 condivide pezzi di vita su Facebook, Twitter, Instagram: 
quali Conseguenze hanno il tempo speso online
 e le interazioni sociali sul nostro cervello e comportamento?


Eccone 5 a cui non avresti pensato.

Trascorriamo in media 2 ore al giorno a navigare, postare e commentare su Facebook, Twitter, YouTube e altre piattaforme social. Le ricadute di questa abitudine su lessico e tempo sprecato sono costantemente sotto ai nostri occhi ("mi hanno taggato in una foto", "ho messo like al suo status"...). Ma quali sono gli effetti dei social media sul nostro cervello?



A descriverli con precisione e un pizzico di ironia ci ha pensato il team di AsapScience. Il video che vedete elenca 5 modi inaspettati e curiosi in cui l'uso dei social altera alcuni meccanismi cerebrali. Eccoli spiegati per punti.



1. DIPENDENZA. Il 5-10% degli utenti online è incapace di controllare il tempo trascorso sui social. Le scansioni cerebrali di queste persone rivelano danni nelle stesse aree colpite nel cervello di chi fa abuso di droghe: si nota una degradazione della sostanza bianca nelle regioni che controllano le emozioni, l'attenzione e i processi decisionali. La ragione è da ricercare nell'appagamento immediato, con poco sforzo, offerto dai social media, che fa sì che il cervello sviluppi dipendenza dagli stimoli da essi offerti (99 giorni senza Facebook: ce la faresti?).



2. MULTITASKING. Si potrebbe pensare che l'uso dei social ci renda più abili nel gestire più compiti contemporaneamente. La prova? Sappiamo tenere nello stesso momento una finestra aperta su Facebook, una su Twitter e una sulla mail che stiamo scrivendo. In realtà è stato dimostrato che chi trascorre molto tempo sui social diviene meno abile nel passare da un compito all'altro, più facilmente distraibile e meno efficiente nell'immagazzinare le informazioni nella memoria 
(oltre al rischio depressione, di cui abbiamo parlato qui).



3. SINDROME DA VIBRAZIONE FANTASMA. "Aspetta, mi è vibrato il cellulare! Ah no, me lo sono sognato": è una frase che vi capita di pronunciare, o sentire, sempre più spesso? In effetti uno studio ha dimostrato che l'89% degli intervistati prova questa sensazione una volta ogni 15 giorni.



Il fenomeno, in aumento, sembrerebbe dovuto al fatto che i smartphone e tablet, complice l'utilizzo dei social, ci seguono ormai dappertutto e sono divenuti appendici di mani e tasche. Vengono così interpretati come "arti fantasma" dalle aree del cervello che analizzano le sensazioni tattili
 (come la corteccia somatosensoriale)
 e finiscono per interferire con le nostre percezioni tattili.



4. RILASCIO DI DOPAMINA. Studi in risonanza magnetica funzionale hanno dimostrato che i centri della ricompensa nel cervello sono più attivi quando, in una conversazione, stiamo parlando di noi, piuttosto che quando ci è chiesto di ascoltare. Ma se nelle chiacchierate faccia a faccia parliamo di noi stessi nel 30-40% delle volte, su Facebook è autocentrato l'80% dei post. Quando scriviamo di noi nel nostro cervello si libera dopamina, un neurotrasmettitore associato alle sensazioni di benessere: è come se il cervello in qualche modo ricompensasse il nostro egocentrismo!
 (Come scovare i narcisi su Facebook)



5. RELAZIONI INTERPERSONALI. Forse per la nostra tendenza a trascorrere molto tempo online, gli studi dimostrano che le relazioni nate online non sono così effimere come si credeva. Una ricerca dell'Università di Chicago ha dimostrato che i rapporti nati su Internet sono persino più solidi di quelli nati offline. Il motivo è da ricercare, forse, nel fatto che in queste storie, prima di incontrarsi di persona si ha modo di conoscere gusti e passioni dell'altro.



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mercoledì 18 luglio 2018

Google: multa miliardaria della Ue per Android


sanzione miliardaria a Google dall’Antitrust europeo

La società: «Faremo ricorso» 
Nell’ecosistema del sistema operativo vengono favoriti i servizi proposti da Mountain View a discapito dei concorrenti. Bloomberg: multa pari a 4,34 miliardi di euro. La società ha 90 giorni per mettersi in regola. Ma ha già annunciato che farà ricorso

Una (nuova) sanzione miliardaria a Google dall’Antitrust europeo. Questa volta la cifra è pari a 4,34 miliardi di euro. Il servizio preso di mira è il sistema operativo più utilizzato nel mondo — detiene circa l’86 per cento del mercato degli smartphone — Android. La Commissione europea ne ha messo sotto indagine la posizione dominante sin dall’aprile del 2015, assecondando le critiche di Fairsearch, un gruppo che comprendeva originariamente anche Microsoft, Nokia e Oracle. Dalla documentazione accumulata in anni, è emerso come il sistema operativo favorisca sin dal 2011 l’utilizzo di servizi sempre appartenenti all’ecosistema Google, a cominciare dal browser Chrome e da Google Search, poi Gmail o Google Maps. Imponendo, secondo la Commissione, «restrizioni illegali ai produttori di dispositivi Android e agli operatori di rete mobile al fine di consolidare la propria posizione dominante nella ricerca generale su Internet». Abuso di posizione dominante, dunque. Che costa a Mountain View una delle sanzioni più alte mai decise dall’Ue e la più alta per questa ragione.



90 giorni di tempo per adeguarsi
La Commissione dà anche un termine preciso per la condotta giudicata scorrette: Google ha 90 giorni di tempo, «altrimenti dovrà affrontare le penali fino al 5 per cento del fatturato medio giornaliero di Alphabet, società madre di Google». Nel primo trimestre del 2018 superava i 31,16 miliardi di dollari, con una crescita del 26 per cento rispetto all’anno precedente. In totale, nel 2017, i ricavi avevano superato i 110 miliardi. «Monitoreremo molto da vicino» l’applicazione della decisione su Android, ha detto Vestager, sottolineando che le altre inchieste su Google rimangono di «massima priorità» per l’Antitrust Ue.

Google farà ricorso
Da Mountain View arriva subito la replica: farà ricorso. Interviene il Ceo Sundar Pichai, che sul blog ufficiale rifiuta la posizione della Commissione europea che «non riconosce quanta scelta Android sia in grado di offrire alle migliaia di produttori di telefoni e operatori di reti mobili che realizzano e vendono dispositivi Android; ai milioni di sviluppatori di app di tutto il mondo che hanno costruito il proprio business con Android; e ai miliardi di consumatori che ora possono permettersi di acquistare e utilizzare dispositivi Android all’avanguardia. Oggi, grazie ad Android, ci sono più di 24.000 dispositivi, di ogni fascia di prezzo e di oltre 1.300 diversi marchi». Da sempre la società respinge le accuse con questa convinzione: il vicepresidente Kent Walker nel 2016 aveva scritto sul blog ufficiale che Android avrebbe creato un ecosistema competitivo, dove c’è equilibrio tra «interessi degli utenti, degli sviluppatori, dei produttori di hardware e di operatori. Android non ha minato alla concorrenza, anzi l’ha ampliata». Una posizione reiterata anche da Pichai: «Sino ad ora, il modello di business di Android ci ha permesso di non far pagare ai produttori di telefoni a nostra tecnologia e di non dipendere da un modello di distribuzione strettamente controllato. Tuttavia, siamo preoccupati che la decisione di oggi possa alterare il delicato equilibrio che abbiamo creato per Android, e che questo rappresenti un segnale allarmante in favore dei sistemi proprietari e a svantaggio delle piattaforme aperte. La decisione di oggi rifiuta il modello di business che supporta Android».

Libertà di scelta per i produttori
Nelle intenzioni della Commissione europea c’è quindi quella di lasciare liberi i produttori di dispositivi Android di scegliere quali app pre-installare, quindi la possibilità di pescare anche al di fuori dell’universo di Mountain View. Sono stati studiati i contratti che vengono loro sottoposti e tra le clausule ci sono infatti obblighi di far trovare all’utente sul nuovo telefono le applicazione per navigare online di Big G (Chrome in primis) o quelle per scaricare altre app (Google Play Store). Come ha sottolineato la commissaria alla Concorrenza, Margrethe Vestager, «Il nostro caso riguarda tre tipi di restrizioni imposte da Google ai produttori di dispositivi Android e agli operatori di rete per garantire che il traffico su dispositivi Android vada al motore di ricerca di Google. In questo modo, Google ha utilizzato Android come veicolo per consolidare il dominio del suo motore di ricerca. Queste pratiche hanno negato ai concorrenti la possibilità di innovare e competere nel merito. E hanno negato ai consumatori europei i vantaggi di una concorrenza effettiva nell’importante sfera mobile. Tutto ciò è illegale sotto le regole antitrust dell’Ue».

Google, sanzione di 2,4 miliardi dall’Antitrust Ue per abuso di posizione dominante

Multa miliardaria
La prima sanzione per Google Shopping
La sanzione arriva dopoun’altra multa, sempre ordinata dalla Commissaria per l’Antitrust Margrethe Vestager, pari a 2,4 miliardi di euro, per aver sfruttato il monopolio delle ricerche online per favorire il suo servizio di Shopping, un comparatore di prezzi. Circa un anno fa, a fine giugno 2017, la sentenza era la stessa: abuso di posizione dominante. Google aveva subito fatto ricorso alla Corte di Giustizia Ue, ma aveva poi, a settembre, avanzato una proposta per trovare una soluzione al problema: la presentazione, sulle sue pagine web, dei siti concorrenti scelti attraverso un’asta. Gli spazi sulla sua sezione, chiamata Product Listing Ads, verrebbero quindi riempiti dagli annunci di prezzi di altre piattaforme. Eccetto i primi due, che sarebbero comunque riservati a Google Shopping.

Antitrust, da Google a Apple, le multe miliardarie dell’Unione europea alle multinazionali


Apple: 13 miliardi di euro
La terza indagine
Non finisce qui per Google, da sette anni nel mirino delle autorità europee. Troppo potere in troppi settori dove si rischia una situazione di monopolio che si traduce in nessuna possibilità di scelta per i consumatori. «Obiettivo della Commissione è applicare le norme antitrust dell’Ue per garantire che le imprese operanti in Europa, ovunque si trovi la loro sede, non privino i consumatori europei della più ampia scelta possibile o non limitino l’innovazione», aveva dichiarato la Commissaria europea per la politica di concorrenza Margrethe Vestager nel 2015. Un terzo fronte è stato aperto nel settore dei servizi di raccolta pubblicitaria. Qui le accuse sono rivolte alla piattaforma AdSense, intermediario tra chi vuole vendere advertisement sul web e chi invece vuole offrire spazi sul proprio sito. Anche qui secondo Google non c’è situazione di monopolio, riscontrando l’esistenza di molte piattaforme concorrenti.

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venerdì 23 marzo 2018

L’Europa si muove sulla Web Tax


La Commissione ha presentato un piano per obbligare
 le grandi società di Internet a pagare le tasse dove realizzano i profitti.

La Commissione Europea ha presentato oggi il suo piano per creare una tassa europea sui guadagni delle grande aziende di internet, soprattutto Google, Amazon, Facebook e Apple (a volte indicate con l’acronimo GAFA). La nuova imposta – qui potete leggerne i dettagli – prevede un’aliquota del 3 per cento da pagare sul fatturato, che dovrebbe generare 5 miliardi di euro di entrate aggiuntive. Il commissario agli Affari economici Pierre Moscovici ha detto che «l’attuale vuoto legislativo ha creato un buco nelle entrate fiscale degli stati membri dell’Unione», a cui la nuova imposta vuole rimediare. L’annuncio della Commissione arriva in un momento delicato in particolare per Facebook, criticata e sotto indagine per il caso Cambridge Analytica, e per le grandi società del settore digitale in generale, accusate di essere riuscite a pagare sempre meno tasse nel corso dell’ultimo decennio.

Politici ed esperti sostengono da tempo che l’elusione fiscale, specialmente quella delle grandi società digitali, sia un problema da risolvere. Secondo uno studio del Parlamento europeo, queste società eludono ogni anno al fisco europeo circa 70 miliardi di euro. La Commissione europea ha stimato che le grandi società del digitale paghino in media il 9,5 per cento di tasse sui loro profitti, contro una media del 23,3 per cento pagata dalle altre società.

La nuova imposta, dovesse entrare in vigore, riguarderà tutte le società con un fatturato globale superiore ai 750 milioni di euro e un fatturato generato nell’Unione Europea pari almeno a 50 milioni di euro. La “web tax” europea viene definita una misura “temporanea”, nel documento della Commissione. Sarà applicata nell’attesa di una soluzione a lungo termine al problema: un nuovo meccanismo fiscale che obblighi le grandi società del digitale a registrare i profitti e pagare le tasse nel paese dove questi sono effettivamente generati e non in paesi terzi, scelti per la loro bassa imposizione fiscale. Questa seconda misura, una volta messa a punto, sostituirà l’imposta sul fatturato al 3 per cento. Prima di entrare in vigore entrambe le misure dovranno essere approvate dal Parlamento europeo e, all’unanimità, dai governi dell’Unione riuniti nel Consiglio dell’Unione Europea (quindi dovranno votare a favore anche Irlanda e Lussemburgo, due paesi con imposizione fiscale molto bassa e che hanno approfittato di questa situazione).

L’elusione fiscale, cioè utilizzare cavilli e altre tecniche per pagare meno tasse, è un problema particolarmente forte con le società digitali. Dato che il loro business sostanzialmente “immateriale” (non hanno bisogno di grandi capannoni con migliaia di operai, ma possono vendere i loro servizi in tutto il mondo) è relativamente facile eludere il fisco, per esempio registrando i loro guadagni in un paese dove le imposte sono basse ma portando avanti il loro business anche nei paesi con imposte più alte. Tutte le imprese possono usare simili strumenti di “elusione fiscale”, ma per le imprese digitali è più facile grazie alla particolarità dei prodotti che vendono.

Il comportamento di Google in Italia è un buon esempio di come funzionano questi meccanismi. L’Ufficio parlamentare di bilancio italiano ha calcolato che nel 2015 Google ha fatturato 637 milioni di euro da clienti italiani. Di questi, 67 milioni sono stati fatturati da Google Italia mentre altri 570 sono stati fatturati da Google Ireland, la società madre di tutte le operazioni di Google in Europa. Soltanto i redditi della prima sono tassati in Italia, anche se entrambe le società hanno fornito servizi e prodotti a clienti italiani che li hanno utilizzati in Italia.

Questa divisione tra Google Italia e Google Ireland è soltanto un aspetto del complesso sistema utilizzato da Google per risparmiare sulle tasse. Il primo passaggio è mantenere basso il fatturato della società che ha sede nel paese ad alta tassazione (Google Italia, in questo caso) e riversare invece ricavi e profitti nella società che si trova nel paese a bassa tassazione (Irlanda). Google Ireland versa a sua volta buona parte degli incassi alla holding di Google nei Paesi Bassi, che in un ennesimo passaggio li versa a sua volta a Google Ireland Holding, che possiede il diritto esclusivo dell’uso del marchio Google in tutti i paesi esclusi gli Stati Uniti. Grazie a questo sistema, che sfrutta le legislazioni favorevoli alle imprese di vari paesi europei, Google può minimizzare – legalmente – la quantità di tasse pagate nel continente.

Secondo le istituzioni internazionali che si sono occupate del fenomeno, il modo migliore per limitare l’elusione fiscale è un accordo internazionale o europeo. Questi accordi però non sono facili da raggiungere, principalmente a causa dell’opposizione di quei paesi con regimi fiscali vantaggiosi che traggono un guadagno da questa situazione. Diversi paesi europei hanno provato a fermare l’elusione fiscale in maniera unilaterale, approvando varie forme di “web tax”. I risultati, però, non sempre sono stati all’altezza delle aspettative. La materia è infatti molto complessa e le iniziative dei singoli paesi rischiano di essere inefficaci o in conflitto con i trattati internazionali. Il Parlamento italiano aveva già approvato una “web tax” nel 2014, ma la legge venne abrogata prima di entrare in vigore. Una seconda “web tax” è stata approvata l’anno scorso e dovrebbe entrare in vigore dal 2019.


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Secondo una ricerca del Financial Times, 
le dieci più grandi società al mondo per valore di borsa 
oggi pagano quasi il 10 per cento in meno rispetto a dieci anni fa...






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sabato 17 marzo 2018

Pratiche Commerciali Sleali, la Francia fa Causa a Google e Apple


Il ministro dell'Economia francese, Bruno Le Maire,
 ha annunciato che lo Stato citerà in giudizio i giganti tecnologici americani, Apple e Google, per "pratiche commerciali sleali" 
e ha aggiunto che la sanzione potrebbe ammontare a "diversi milioni di euro".   "Io credo in un'economia fondata sulla giustizia e porterò Google e Apple davanti al tribunale di Parigi per pratiche commerciali sleali", ha reso noto intervistato dall'emittente RTL. 

 L'accusa: termini contrattuali "abusivi" Parigi intende punire quelli che ha definito termini contrattuali "abusivi" imposti dai giganti della tecnologia alle startup e agli sviluppatori. Le Maire ha spiegato alla radio di Rtl di essere stato informato che Apple e Alphabet Google hanno imposto unilateralmente i prezzi e le modifiche del contratto agli sviluppatori che vendono software su Google Play e sull'App Store di Apple. "Per quanto potenti siano, Google e Apple non possono trattare le nostre startup e i nostri sviluppatori come fanno", ha detto Le Maire. L'autorità francese contro le frodi ai consumatori, la Dgccrf, ha confermato in una successiva dichiarazione di aver iniziato un'azione legale contro i due gruppi tecnologici statunitensi. La replica di Google "Con oltre 1000 download al secondo, Google Play è un ottimo strumento per gli sviluppatori Europei di app, piccoli e grandi, inclusi molti in Francia, per distribuire le loro app a persone di tutto il mondo. Abbiamo collaborato con la Dgccrf (Direction générale de la concurrence, de la consommation et de la répression des fraudes) su molti temi negli ultimi anni, incluso Google Play.  Riteniamo che i nostri termini rispettino le leggi francesi e sosterremo il nostro caso in tribunale".

 La replica di Apple "Siamo orgogliosi di avere costruito relazioni solide con decine di migliaia di sviluppatori in Francia, che hanno guadagnato 1 miliardo sull’App Store. Molti di questi talentuosi sviluppatori hanno dato vita alle loro aziende con 1 o 2 persone e hanno realizzato il loro sogno, vedendo aumentare i loro team che offrono app agli utenti di 155 nazioni. Questo è stato possibile grazie all’investimento Apple in iOS, negli strumenti per sviluppatori e nell’App Store. Apple ha sempre insistito sulla privacy e sicurezza dell’utente e non ha accesso alle transazioni con app terze parti. Non vediamo l’ora di raccontare la nostra versione alle corti francesi e chiarire questo fraintendimento. Nel frattempo, continueremo ad aiutare gli sviluppatori francesi a realizzare i propri sogni e assistere gli studenti francesi nell’apprendimento della programmazione
 offrendo il nostro programma di coding". 

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lunedì 18 dicembre 2017

Da Apple a Facebook : Tanti Affari, poche Tasse.



Ricchi nel Mondo ma Poveri in Italia

I giganti del web beffano le tasse.


Da Apple a Facebook: nel 2016 versati in tutto solo 11,7 milioni. Una media azienda italiana paga di più rispetto all'insieme delle imprese new economy. Roma vuole un'imposta Ue.

Tanti affari, poche tasse. I colossi del web continuano a macinare fatturato e profitti in Italia ma al fisco tricolore lasciano solo le briciole. La moral suasion della Procura di Milano - che ha "convinto" Google e Apple a patteggiare il versamento di 624 milioni di imposte arretrate - non è servita a molto. Il gioco delle tre tavolette erariali (incasso i soldi nel Belpaese ma registro i ricavi in Irlanda, Lussemburgo, Olanda o nel Delaware, dove le aliquote sono low-cost) continua. E il Tesoro resta come sempre a bocca asciutta.

Facebook, Apple, Amazon, Airbnb, Twitter e Tripadvisor - aziende che fanno girare qualche miliardo l'anno nella penisola - hanno versato in tutto nel 2016 all'Agenzia delle entrate 11,7 milioni di euro. La stessa somma, per dire, pagata dalla sola Piaggio. Cinque milioni in meno dell'assegno staccato dalla Fila, che di mestiere fa matite, gessetti e pastelli (tutta roba old economy) e alla voce ricavi è ferma a 422 milioni. Google Italy ha iscritto a bilancio tasse per 42,7 milioni. Ma si tratta di un'illusione ottica: la cifra corrisponde alla rata concordata con il Fisco tricolore per sanare i peccati del passato, mentre la quota relativa al 2016
 è una frazione minima di questo tesoretto.

Tutto regolare? Sì, assicurano i diretti interessati, abilissimi a sfruttare la competizione fiscale tra nazioni mettendo su residenza legale dove si pagano meno balzelli. Il caso di Facebook - passato ai raggi X dall'Ufficio parlamentare di bilancio - è esemplare: il social di Mark Zuckerberg ha venduto nel 2015 in Italia servizi - in particolare pubblicità - per 224,6 milioni, calcola lo studio presentato in Senato. Quei soldi però non sono mai entrati nel mirino dell'Agenzia delle entrate di casa nostra. Facebook li ha fatti sparire incassandoli virtualmente - miracoli dell'era digitale - a Dublino per sfruttare i saldi dell'erario irlandese. La filiale italiana ha contabilizzato solo i servizi amministrativi e logistici garantiti alla casa madre (7 milioncini di euro nel 2015, 9,3 lo scorso anno) e ha versato a Roma una tassa simbolica: 203mila euro nel 2015, 267mila l'anno scorso, più o meno quanto paga un negozio ben avviato nel centro della capitale.

Lo stesso giochino, in fotocopia, lo fanno tutti i giganti hi-tech. Apple triangola sull'Irlanda i soldi incassati grazie ad iPhone & C. in Italia, come Twitter. Amazon ha scelto fino a poco tempo fa il Lussemburgo. Il pedaggio pagato all'erario tricolore da Airbnb nel 2016 grazie a questi giochi di prestigio fiscali è ammontato a 62mila euro. Meno ancora ha sborsato Trip Advisor, ferma a 12.594 euro, 
più o meno le imposte versate da un impiegato.

Italia ed Europa stanno scervellandosi da tempo su come costringere Google & C. a pagare le tasse come fanno tutti i comuni mortali (o quasi). Il metodo più efficace si è rivelato finora quello della minaccia di cause legali, come dimostrano i pentimenti a scoppio ritardato di Google e Apple nel nostro paese. La Procura di Milano, non a caso, ha aperto un fascicolo anche su Amazon - accusata di aver evaso 130 milioni - e su Facebook. La Francia avrebbe appena chiesto 600 milioni a Microsoft e la Ue ha multato l'Ir-landa per 13 miliardi (Dublino ha fatto ricorso) per le agevolazioni fiscali ad Apple.

Le iniziative spot però - comprese le web-tax annacquate all'italiana o la minaccia di una cedolare secca fatta dal Tesoro tricolore - sono poco efficaci, come dimostrano le aliquote fiscali "bonsai" (tra il 3 e il 6% dei profitti) pagate dai colossi digitali sulle loro attività internazionali. Italia, Francia, Spagna e Germania hanno deciso così di rompere gli indugi e già al consiglio europeo del prossimo 15 settembre a Tallin potrebbero presentare un primo piano per arrivare a una tassazione digitale comune nella Ue. L'obiettivo è far pagare le imposte dove si crea valore, i metodi sono ancora da stabilire. Sul tavolo c'è l'esempio di Londra che ha varato un prelievo del 25% sui "profitti trasferiti", chiamato non a caso Google Tax. Se fosse applicato oggi in Italia, il carico fiscale di Mountain View nel nostro paese salirebbe a circa 130 milioni l'anno, quello di Facebook attorno ai 50. Un altro modello è quello dell'India che tassa del 6% tutte le acquisizioni di prodotti e servizi all'estero e online fatti nel paese. L'America (per ora) fa resistenza e si è schierata al fianco dei suoi campioni hi-tech, mettendosi di traverso su questi interventi. La caccia al tesoro fiscale dei giganti del web è appena iniziata.
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sabato 23 luglio 2016

Pokémon Go : Google e la guerra contro Facebook


Pokémon Go è senza dubbio l’applicazione del momento. Genera hype, dipendenza, comportamenti assurdi, snobismo e, purtroppo, nella maggior parte dei casi, posizioni completamente acritiche e totale assenza di analisi, anche fra giornalisti. L’unica cosa che emerge nelle conversazioni sociali è il tifo: ci sono quelli che ci giocano e non vogliono che li si critichi, quelli che criticano, quelli che criticano chi critica.

Ma Pokémon Go è anche avamposto di Google per la guerra contro Facebook.

Il primo indizio che dovrebbe far insospettire tutti è il fatto che Pokémon Go si appoggi sulle mappe di Google. L’interfaccia grafica, infatti, non è nient’altro che una rivisitazione di Google Maps.

Il secondo indizio, in realtà, sarebbe il primo in ordine temporale, dopo che si scarica il gioco. Ma uno magari non ci pensa subito, ci fa caso dopo. Pokémon Go non dà la possibilità di registrarsi e accedere tramite FacebooPokemon Go Google vs Facebookk. Ci si può creare un account direttamente sull’app oppure accedere direttamente attraverso il proprio account Google. Conosci altre app che nel 2016 hanno fra l’altro l’obiettivo di diventare quanto più virali possibili e che non consentano di accedere alla app tramite Facebook? Pensi che possa essere un caso, un errore o una scelta specifica?

Il terzo indizio richiede l’uso di Google, una volta che ci si è posta qualche domanda sui primi due. Pokémon Go è un gioco sviluppato da Niantic, Inc. Niantic, Inc. prima di chiamarsi così si chiamava Niantic Labs. Niantic Labs era stata fondata all’interno di Google da John Hanke nel 2010. John Hanke era stato acquisito con Keyhole, la sua start-up, da Google nel 2004 (e aveva sviluppato, internamente alla compagnia di Mountain View, Google Earth e Google Maps). Con Niantic e dentro Google, Hanke sviluppa Ingress, un videogioco di realtà aumentata che ha come interfaccia grafica le Google Maps e come campo di gioco il mondo (solo che, a differenza di Pokémon Go, è anche bello. Non diventa virale: fa circa 14 milioni di download e 250mila persone partecipano a eventi dal vivo organizzati nell’ambito del gioco) e una app di viaggi, FieldTrip.

Nel 2015 nasce Alphabet (la compagnia madre di Google) e Niantic diventa una società indipendente. Al momento dell’uscita, però, i rapporti fra Niantic e Google restano ottimi. Anzi, forse qualcosa di più. Sulla pagina Google+ di Ingress si legge (il 12 agosto 2015):

«Porteremo la nostra miscela unica di esplorazione e divertimento ad un pubblico ancora più grande, con alcuni sorprendenti nuovi partner che si uniranno a Google come collaboratori e sostenitori».
Quindi, Google resta come investitore. E se ne annunciano altri, così come si annunciano progetti rivolti a un pubblico più ampio. Contemporaneamente, un portavoce di Google dice a Techcrunch:

«Niantic è pronta ad accelerare la propria crescita, diventando una società indipendente, cosa che li aiuterà ad avvicinarsi a investitori e partner nel mondo dell’intrattenimento. Saremo contenti di continuare a sostenerli mentre porteranno esplorazione e divertimento ad ancora più persone nel mondo».
Stessi toni: vuol dire che qualcosa bolle già in pentola.

E infatti, due mesi dopo, Google, The Pokémon Company e Nintendo (eccoli, i nuovi partner!) investono su Niantic 20 milioni di dollari (che dovrebbero diventare 30). Per fare Pokémon GO. Nel frattempo, nel 2014, Google e la Pokémon Company avevano già fatto le prove tecniche di trasmissione: il 1° aprile, giorno dei pesci d’aprile, Google aveva riempito le proprie mappe di Pokemon. È più che lecito, oggi, pensare che fosse un test. O che in quell’occasione nascesse il concept del gioco.

Pokemon Go PlusIl design di Pokémon GO Plus (uno strumento per videogiocatori, indossabile, in vendita a 34,99 $ e già esaurito, come se non bastasse, è un mix fra il logo dei Pokémon e il “segnaposto” di Google Maps.

A sottolineare ancora una volta l’enorme legame fra Google e questo gioco.

Google punta sulla realtà aumentata. Lo fa attraverso una compagnia che ha “incubato” e utilizzando un marchio arcinoto e transgenerazionale come i Pokemon. Lo fa creando un gioco-social network.

Lo aveva detto, del resto, il Presidente e CEO della Pokémon Company, Tsunekazu Ishihara: «L’investimento strategico in Niantic pone le basi per un’esperienza social in mobilità che il mondo non ha mai visto prima».

I dati importanti, allora, non sono i numeri di download o il tempo di permanenza sulla applicazione (quelli li valuteremo poi fra qualche mese). Il dato importante è che Pokémon GO fa parte della lotta fra Google e Facebook e che riposiziona in qualche modo Google nell’universo social. Un universo nel quale si pensava che non potesse più competere con Facebook.

Così, ecco che non ti puoi loggare con Facebook per scelta esplicita: l’unico motivo per rinunciare ad un volano di viralità come il social di Zuckerberg sta nelle finalità di Google.

È Google, attraverso Niantic, che si tiene i dati dei giocatori (perché dovrebbe darli a Facebook? Il rivale ne ha così tanti…). È Google che apre a nuove possibilità di mercato (pubblicità e marketing in app, più ancora che acquisti in app, ma anche eventi dal vivo) e si posiziona in maniera strategica – senza esporsi direttamente ma solo come investitore, mettendosi al riparo da figuracce come quella fatta con Google+ – in un mondo, quello della realtà aumentata che non è un’idea nuova ma che, grazie ai Pokémon, è diventato pop.

Ecco. Mentre filosofeggiamo sull’opportunità o meno di giocare a Pokémon Go, mentre ridiamo di chi lo fa o di chi ride di chi lo fa, mentre ci preoccupiamo – forse giustamente? – di quanto diventi sempre più pervasiva la tecnologPokemon Goia nelle nostre vite e di quanto tempo passiamo a lavorare gratis per le Over The Top (è quel che si fa quando si usa Facebook o quando si gioca a Pokémon GO, anche se è qualcosa che ci piace fare), ricordiamoci anche che siamo dati nelle mani di grandi compagnie che si contendono il futuro.

Pokémon Go è parte di questa guerra, ed è una mossa sulla scacchiera del mondo interconnesso che pone Google in una posizione molto interessante. Vedremo come (e se) risponderà Facebook. Il primo punta tutto sulla realtà aumentata. Il secondo diceva di voler puntare sulla realtà virtuale: è tutto da dimostrare, se la realtà virtuale possa o meno diventare virale.
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Ora catturiamo pure i nostri Pokémon. Ma conoscendo il contesto.

Pokémon GO: individuate applicazioni 
fake che scaricano malware

Individuate dagli esperti di ESET 3 app fake: i consigli per giocare in tutta sicurezza

Si chiamano Pokemon Go Ultimate, Guide & Cheats for Pokemon Go e Install Pokemongo le tre false app di Google Play appena scoperte dagli esperti di ESET, il più grande produttore di software per la sicurezza digitale dell'Unione Europea, in grado di bloccare lo schermo dello smartphone per poi connettersi a siti porno o di attivare costosi servizi a pagamento all’insaputa degli utenti.

La prima delle tre app fake, Pokemon Go Ultimate, celandosi come una versione del famoso gioco di successo, è in grado di bloccare immediatamente lo schermo dello smartphone dopo il suo avvio. Dopo un riavvio forzato, possibile solo togliendo la batteria dallo smartphone o modificando le impostazioni dei dispositivi Android, il malware si esegue in background, quindi in modalità invisibile alla vittima, cliccando in maniera nascosta su pubblicità porno. Per eliminare questa minaccia l'utente deve andare su Impostazioni - Gestione applicazioni - PI Network e disinstallarla manualmente.

Le altre due applicazioni fake individuate dagli esperti di ESET su Google Play, Guide & Cheats for Pokemon Go e Install Pokemongo, appartengono alla famiglia degli scareware ed inducono le vittime a pagare per falsi servizi estremamente costosi, promettendo di generare Pokecoin, Pokeball o Lucky Egg.
Le app fake non sono rimaste a lungo su Google Play e sono state immediatamente rimosse dallo store dopo la segnalazione di ESET.

Pokémon GO è un gioco così accattivante che, nonostante tutti gli avvertimenti degli esperti di sicurezza, gli utenti tendono ad accettare i rischi e a scaricare qualsiasi cosa pur di catturare tutti i Pokémon. Coloro che davvero non possono resistere alla tentazione dovrebbero almeno seguire le regole base di sicurezza:

- scaricare le applicazioni solo da fonti attendibili
- verificare le recensioni degli altri utenti, concentrandosi sui commenti negativi e tenendo ben a mente che quelli positivi potrebbero essere stati inseriti appositamente
- leggere le condizioni e i termini d'uso delle app, focalizzandosi sui permessi richiesti
- utilizzare una soluzione di sicurezza mobile in grado di controllare tutte le app del dispositivo



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martedì 7 giugno 2016

Google ed i suoi Algoritmi


Google ed i suoi Algoritmi 

Quali sono e come ragionano gli algoritmi di Google
, almeno quelli ad oggi conosciuti.

Si sente spesso parlare di questi fantomatici "algoritmi di Google", ed ancora molto c'è da scoprire su di essi. Tuttavia, si possono certamente identificare i principali, che ogni SEO specialist che si rispetti dovrebbe quanto meno conoscere: proviamo ad analizzarli uno per uno.

1. Panda

Google Panda nasce nel lontano 2011, ed è forse il principale algoritmo di Google, o quanto meno quello maggiormente aggiornato e sul quale si concentrano molti dei suoi sforzi di ottenere un motore di ricerca che possa definirsi "perfetto". Nato come semplice filtro, solo da quest'anno è di fatto divenuto un vero e proprio algoritmo di calcolo, seppur non applicato in modo "real time" (ovvero direttamente su ogni ricerca dell'utente). Fondamentalmente, Panda controlla la qualità del contenuto di una pagina web. Le pagine che gli piacciono sono: quelle con contenuti originali, ben tematizzati e distribuiti all'interno del sito, esaustivi e non finalizzati a link e/o spingere risorse esterne. 
Quali non gli piacciono? Quelle con contenuti copiati da altre fonti, doppioni di testi e/o immagini presenti su altre pagine dello stesso sito, scarni o poco inerenti all'argomento. Regole da rispettare: testi sempre di almeno 300-400 parole, assolutamente inerenti alla tematica della pagina, user experience di qualità per l'utente finale. Assolutamente da evitare: copia e incolla da altre fonti, eccessivo utilizzo delle keyword all'interno del testo, testi troppo brevi.

2. Penguin

Google Penguin nasce nel 2012, con lo scopo di stanare i link atti ad innalzare il ranking di altre pagine (interne o esterne al sito). Il nemico n.1 dei SEO, tanto per capirci. E' sicuramente l'algoritmo più pericoloso, in quanto un aggiornamento può facilmente portare un sito web a "crollare" in SERP in brevissimo tempo. Anche Penguin sarà a breve real-time, il che significa che la frequenza di penalizzazione sarà molto alta, ma al tempo stesso più veloce la possibilità di "redimersi" rimuovendo i link ritenuti sospetti da Google. Ne abbiamo già parlato in passato, ma val la pena ricordarlo: quali sono i link che piacciono a Penguin? Quelli naturali, inerenti all'argomento della pagina alla quale rimandano e con anchor text (testo del link) spontaneo e comprensibile. Quali non gli piacciono? Link di spam, link a pagamento, link provenienti da network di siti sospetti, link con anchor forzati o non inerenti. Tutte tecniche da evitare nel 2016, se non si vuole correre il rischio di sprofondare in decima pagina.

3. Hummingbird

Google Hummingbird è stato introdotto nel 2013 come principale algoritmo interpretativo: per dirla facile, il suo scopo è quello di capire le intenzioni di ricerca dell'utente al di là della keyword digitata. Per fare ciò, lavora in real-time per cercare di mostrare risultati in SERP che rispondano non tanto alla specifica keyword, ma a quello che si presume l'utente stia realmente cercando, calcolando quindi l'utilizzo di sinonimi e di argomenti correlati alle parole chiave immesse. Una mannaia per alcune delle vecchie tecniche SEO, dal momento che non gli piacciono certamente pagine con parametri strettamente impostati sulle keyword, con utilizzo ripetuto di esse nel testo e con esperienza utente scarsa. Cosa fare? Focalizzarsi sugli argomenti e non sulle keyword, offrendo contenuti completi ed originali, capire quale linguaggio usa il nostro target, e utilizzare tecniche di ottimizzazione moderne, che impostino alcuni dei principali fattori di pagina (titoli, meta, h1, snippet ecc...) seguendo il linguaggio naturale del web.

4. Pigeon

Google Pigeon è un algoritmo piuttosto recente, nato nel 2014 ed attualmente attivo solo sulle ricerche in lingua inglese. E' un algoritmo che potrebbe rivoluzionare il mondo della SEO nei prossimi anni, perchè nasce con l'intento di manipolare i risultati del motore sulla base della posizione dell'utente. SEO geo-localizzata? Quasi. 
Quella, di fatto, esiste già ed è applicata dai cosidetti algoritmi locali (seppur molto dipenda dalla query dell'utente), ma la vera rivoluzione consiste nel fatto che questi ultimi vengono fatti lavorare insieme agli algoritmi principali (Panda, Penguin, ecc...), determinando quindi con regole comuni il posizionamento sia locale che non. In sostanza, l'obiettivo di Google è quello di abbattere le richieste geo-localizzate (vendita biciclette Milano) applicando contemporaneamente parametri generali e parametri locali, al fine di mostrare le pagine più meritevoli ed allo stesso tempo appartenenti ad attività vicine all'utente. Quali sono le regole da rispettare? Link di qualità provenienti da siti del territorio, presenza di una pagina Google My Business, presenza di un valido NAP (Name Address Phone), citazione in directory locali. Senza questi elementi, difficile che il motore possa agevolarmi in questo tipo di ricerche.

5. Mobilegeddon

Vero nome: Mobile Friendly Update. Algoritmo che ha interessato, fin dalla sua nascita nel 2015, i risultati sui dispositivi mobili, con una logica molto semplice: siti responsive e perfettamente fruibili da smartphone e tablet prima, poi tutti gli altri. Come quasi tutti gli algoritmi visti in precedenza, anche Mobilegeddon è relativo alla singola pagina, il che significa che se all'interno di un sito perfettamente mobile-friendly ho una pagina che non rispetta invece i canoni imposti da Google, solo e soltanto quella pagina sarà declassata per le ricerche da mobile. I canoni imposti sono quelli più o meno conosciuti: esperienza utente, contenuti leggibili, velocità di caricamento ed assenza di requisiti software particolari. Tradotto in pratica, assolutamente da evitare pagine pesanti, senza bottoni per le call to action, con contenuti poco visibili o, peggio, che richiedano plugin particolari per essere caricate.

6. RankBrain

Google RankBrain è un algoritmo molto recente, che è stato introdotto pochi mesi fa (ottobre 2015) allo scopo di perfezionare l'autoapprendimento del motore di ricerca
 e la lettura delle reali intenzioni dell'utente. 
Cosa fa? Impara da ogni pagina mostrata al visitatore in risposta ad una ricerca, cercando di capire se ha mostrato il giusto risultato o meno. Lo fa analizzandone il comportamento (e qui entra in gioco la frequenza di rimbalzo), memorizzando i contenuti mostrati ed incrociandoli con i futuri aggiornamenti sull'argomento ed imparando dai propri errori. Se la volta precedente, basandosi sugli algoritmi strettamente SEO, ha posizionato la mia pagina prima di un'altra, la volta successiva ciò non accadrà se quanto mostrato non era in realtà assolutamente inerente alla ricerca. Come a dire: stavolta mi hai fregato, ma la prossima non ci casco più! E' evidente che per "combattere" questo algoritmo sono fondamentali due aspetti: la user-experience (da evitare come la peste il rimbalzo) ed un'accurata valutazione dei propri competitor, al fine di individuarne strategie e contenuti maggiormente trattati.

La nostra analisi termina qui... C'è da aggiungere che molti degli algoritmi di cui sopra ricevono frequenti aggiornamenti, una o due volte al mese per quello che ci è dato a sapere, e che tali aggiornamenti sono a volte minimi, altre volte in grado di sconvolgere la SERP. 
La soluzione migliore? Soddisfare tutti i requisiti descritti, andando quindi d'accordo con il Panda, il Pinguino, il Colibrì e tutta la loro compagnia.

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giovedì 21 gennaio 2016

Multinazionali hanno ricevuto un maxisconto sulle tasse



La Apple ha ricevuto un maxisconto sulle tasse, quelle stesse tasse che sono l'incubo di ogni cittadino italiano diventano dei maxisconti per le multinazionali .

Apple Italia doveva al fisco 880 milioni di euro, a seguito dell'evasione fiscale sull'IRES dal 2008 al 
2013 , la multinazionale ha ricevuto uno sconto del 63.86% sul dovuto e forse verserà (attenzione non ha ancora versato...) SOLO 318 milioni di euro al fisco italiano.

È bastato per l'azienda dichiarare che prodotti venduti nel nostro paese sono stati invece venduti in 
Irlanda, dove la tassazione è bassissima (si pensi che la corporate tax sugli utili è di solo il 12.5%).

Stesso sconto per aziende quali Google, Mediolanum, Amazon, Western Digital.

Per la prima su 800 milioni di euro evasi ne vengono chiesti solo 150, con un maxisconto del 81.25%, alla seconda, la banca italiana del gruppo Fininvest al posto dei 506 milioni di euro dovuti, ne pagherà solo 143, ossia uno sconto del 71.74%.

Ovviamente molto diverso è il trattamento per il piccolo imprenditore: se viene scoperto un reddito non dichiarato e il contribuente accetta un accordo bonario, pagherebbe comunque tra tasse e sanzioni il 133% dell'importo.
Se non dovesse accettare l'accordo, il fisco lo perseguirebbe per fargli pagare dal 200% al 300% 
dell'evasione accertata. Altro che sconti...
Insomma i piccoli artigiani italiani soffocano ma le multinazionali gongolano.

PS.
Ciliegina sulla torta: a difendere la multinazionale della mela nell'accusa di evasione fiscale, una 
persona che avrebbe dovuto difendere invece i cittadini da chi ruba loro i soldi: l'avvocato Paola 
Severino ex ministro della giustizia del governo Monti.



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domenica 1 novembre 2015

Il tuo Sito Web è RESPONSIVE ?




Il tuo Sito Web è RESPONSIVE ?

RESPONSIVE, Mobile-Friendly …. ma cosa vuol dire ?
E perché se il mio sito non risponde a queste caratteristiche, 
ho meno clienti, meno accessi e meno profitto ?

Cosa vuol dire sito RESPONSIVE o MOBILE-FRIENDLY ?

Senza scendere in tanti tecnicismi, vuol semplicemente dire che il sito è perfettamente navigabile sia se viene aperto dal computer, sia se viene aperto da smartphone, da tablet 
o da qualsiasi altro dispositivo mobile.

In poche parole un sito web Responsive fa vivere una bella esperienza di navigazione al tuo utente, sia che lui voglia vedere il tuo sito sul monitor grande di un computer, sia che lo voglia navigare da un tablet o da uno smartphone.

E se consideri che l’attuale traffico ai siti web avviene per il 75% da dispositivi mobili, avere un sito che su smartphone fa schifo, porta l’utente ad andarsene e 
porta te (azienda) ad aver perso un potenziale cliente.

Alcuni fattori che rendono un sito “mobile-friendly” sono:
testo leggibile senza dover zoomare,
link a prova di touchscreen e facili da cliccare,
possibilità di navigare senza gesti innaturali.
Chi naviga un sito web Mobile-Friendly, indipendentemente da quale dispositivo stia utilizzando, potrà fruire comodamente dei contenuti, compilare form online, realizzare ordini online, visualizzare 
correttamente le promozioni, ecc … evitando così le fastidiose azioni di zoom che, purtroppo, sono le cause maggiori di abbandono del sito.

Ricapitolando un sito web Mobile-Friendly fa contento l’utente
 (che non ha difficoltà a controllare il tuo sito), 
a contento te (perché i tuoi utenti non scapperanno più) e fa anche contento Google.

Se hai un sito, un Blog, una Landing Page o un eCommerce ti consigliamo di controllare come viene 

visualizzato da dispositivi come smartphone o tablet.

Ecco le verifiche da fare in autonomia … 

Verifica molto semplicemente se il tuo sito è ottimizzato per la navigazione da smartphone e tablet 
usando il link ufficiale di Google:


Inserisci il link del tuo sito, clicca ANALIZZA, dai tempo al tool di controllare 
e preparati alla sentenza.

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