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venerdì 23 marzo 2018

L’Europa si muove sulla Web Tax


La Commissione ha presentato un piano per obbligare
 le grandi società di Internet a pagare le tasse dove realizzano i profitti.

La Commissione Europea ha presentato oggi il suo piano per creare una tassa europea sui guadagni delle grande aziende di internet, soprattutto Google, Amazon, Facebook e Apple (a volte indicate con l’acronimo GAFA). La nuova imposta – qui potete leggerne i dettagli – prevede un’aliquota del 3 per cento da pagare sul fatturato, che dovrebbe generare 5 miliardi di euro di entrate aggiuntive. Il commissario agli Affari economici Pierre Moscovici ha detto che «l’attuale vuoto legislativo ha creato un buco nelle entrate fiscale degli stati membri dell’Unione», a cui la nuova imposta vuole rimediare. L’annuncio della Commissione arriva in un momento delicato in particolare per Facebook, criticata e sotto indagine per il caso Cambridge Analytica, e per le grandi società del settore digitale in generale, accusate di essere riuscite a pagare sempre meno tasse nel corso dell’ultimo decennio.

Politici ed esperti sostengono da tempo che l’elusione fiscale, specialmente quella delle grandi società digitali, sia un problema da risolvere. Secondo uno studio del Parlamento europeo, queste società eludono ogni anno al fisco europeo circa 70 miliardi di euro. La Commissione europea ha stimato che le grandi società del digitale paghino in media il 9,5 per cento di tasse sui loro profitti, contro una media del 23,3 per cento pagata dalle altre società.

La nuova imposta, dovesse entrare in vigore, riguarderà tutte le società con un fatturato globale superiore ai 750 milioni di euro e un fatturato generato nell’Unione Europea pari almeno a 50 milioni di euro. La “web tax” europea viene definita una misura “temporanea”, nel documento della Commissione. Sarà applicata nell’attesa di una soluzione a lungo termine al problema: un nuovo meccanismo fiscale che obblighi le grandi società del digitale a registrare i profitti e pagare le tasse nel paese dove questi sono effettivamente generati e non in paesi terzi, scelti per la loro bassa imposizione fiscale. Questa seconda misura, una volta messa a punto, sostituirà l’imposta sul fatturato al 3 per cento. Prima di entrare in vigore entrambe le misure dovranno essere approvate dal Parlamento europeo e, all’unanimità, dai governi dell’Unione riuniti nel Consiglio dell’Unione Europea (quindi dovranno votare a favore anche Irlanda e Lussemburgo, due paesi con imposizione fiscale molto bassa e che hanno approfittato di questa situazione).

L’elusione fiscale, cioè utilizzare cavilli e altre tecniche per pagare meno tasse, è un problema particolarmente forte con le società digitali. Dato che il loro business sostanzialmente “immateriale” (non hanno bisogno di grandi capannoni con migliaia di operai, ma possono vendere i loro servizi in tutto il mondo) è relativamente facile eludere il fisco, per esempio registrando i loro guadagni in un paese dove le imposte sono basse ma portando avanti il loro business anche nei paesi con imposte più alte. Tutte le imprese possono usare simili strumenti di “elusione fiscale”, ma per le imprese digitali è più facile grazie alla particolarità dei prodotti che vendono.

Il comportamento di Google in Italia è un buon esempio di come funzionano questi meccanismi. L’Ufficio parlamentare di bilancio italiano ha calcolato che nel 2015 Google ha fatturato 637 milioni di euro da clienti italiani. Di questi, 67 milioni sono stati fatturati da Google Italia mentre altri 570 sono stati fatturati da Google Ireland, la società madre di tutte le operazioni di Google in Europa. Soltanto i redditi della prima sono tassati in Italia, anche se entrambe le società hanno fornito servizi e prodotti a clienti italiani che li hanno utilizzati in Italia.

Questa divisione tra Google Italia e Google Ireland è soltanto un aspetto del complesso sistema utilizzato da Google per risparmiare sulle tasse. Il primo passaggio è mantenere basso il fatturato della società che ha sede nel paese ad alta tassazione (Google Italia, in questo caso) e riversare invece ricavi e profitti nella società che si trova nel paese a bassa tassazione (Irlanda). Google Ireland versa a sua volta buona parte degli incassi alla holding di Google nei Paesi Bassi, che in un ennesimo passaggio li versa a sua volta a Google Ireland Holding, che possiede il diritto esclusivo dell’uso del marchio Google in tutti i paesi esclusi gli Stati Uniti. Grazie a questo sistema, che sfrutta le legislazioni favorevoli alle imprese di vari paesi europei, Google può minimizzare – legalmente – la quantità di tasse pagate nel continente.

Secondo le istituzioni internazionali che si sono occupate del fenomeno, il modo migliore per limitare l’elusione fiscale è un accordo internazionale o europeo. Questi accordi però non sono facili da raggiungere, principalmente a causa dell’opposizione di quei paesi con regimi fiscali vantaggiosi che traggono un guadagno da questa situazione. Diversi paesi europei hanno provato a fermare l’elusione fiscale in maniera unilaterale, approvando varie forme di “web tax”. I risultati, però, non sempre sono stati all’altezza delle aspettative. La materia è infatti molto complessa e le iniziative dei singoli paesi rischiano di essere inefficaci o in conflitto con i trattati internazionali. Il Parlamento italiano aveva già approvato una “web tax” nel 2014, ma la legge venne abrogata prima di entrare in vigore. Una seconda “web tax” è stata approvata l’anno scorso e dovrebbe entrare in vigore dal 2019.


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Secondo una ricerca del Financial Times, 
le dieci più grandi società al mondo per valore di borsa 
oggi pagano quasi il 10 per cento in meno rispetto a dieci anni fa...






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lunedì 19 marzo 2018

Profili Facebook Rubati per fini Elettorali


 Tegola su Zuckerberg 
Lo scandalo si allarga. 
Stati Uniti e Regno Unito 
ora puntano il dito contro l'amministratore delegato Mark Zuckerberg. Elezioni Usa 2016, con la vittoria di Trump, e referendum Brexit sono stati "manipolati"? E chi lo avrebbe fatto ha utilizzato dati contenuti proprio su uno dei più famosi e frequentati social del web? 


Si ingrandisce lo scandalo Facebook, il giorno dopo l'inchiesta del New York Times e del Guardian, che ha dimostrato come i dati dei profili di 50 milioni di elettori americani siano stati illecitamente usati da Cambridge Analytica e da una società canadese per fini elettorali.                                          Nel mirino è finito il fondatore di Fb, Zuckerberg: gli Usa vogliono ascoltarlo davanti alla Commissione d'inchiesta per il voto alle presidenziali del 2016, in cui ha vinto Trump, e Londra per il referendum che ha portato poi alla Brexit. Facebook, intanto, ha già silurato Cambridge Analytica e i due scienziati responsabili della raccolta dati.  In una nota, Facebook fa sapere che sta conducendo un "controllo interno per accertare se i profili personali dei 50 milioni di utenti segnalati come dati utilizzati in modo improprio da un consulente politico esistano ancora". Facebook sta "cercando di stabilire l'accuratezza delle accuse", ovvero "che un ricercatore abbia fornito alla società Cambridge Analytica dati di user Facebook, a partire dal 2014, in modo inappropriato". Paul Grewal, vice presidente Facebook, ha affermato di essere impegnato ad "applicare con forza tutte le politiche aziendali per proteggere le informazioni degli utenti". 

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Cambridge Analytica ha aiutato Trump , Oscurata da Facebook


Cambridge Analytica è finita nel mirino del procuratore speciale per il Russiagate Robert Mueller.
Facebook ha oscurato dalla sua piattaforma, la società dati britannica che ha aiutato il presidente Donald Trump durante le elezioni del 2016. L'accusa è di aver ingannato il social media e violato le politiche sulla gestione dei dati degli utenti. 

Facebook spiega che Cambridge Analytica ha conservato impropriamente i dati degli utenti pur avendo detto che li aveva distrutti. Nell'annunciare la sospensione Facebook non entra nel dettaglio di come Cambridge Analytica ha usato i dati o se li ha dati alla campagna di Trump. Cambridge Analytica è finita nel mirino del procuratore speciale per il Russiagate Robert Mueller. Secondo l'accusa,  ha raccolto informazioni private di oltre 50 milioni di utenti americani di Facebook. Dati raccolti pagando un ricercatore esterno che a Facebook avrebbe detto di averne bisogno per motivi accademici. L'acquisizione dei dati avrebbe consentito a Cambridge Analytica di accedere alle abitudini online e sui social media di milioni di americani, sviluppando tecniche poi adottate durante la campagna di Donald Trump nel 2016.

 Facebook ha inizialmente cercato di minimizzare la portata dell'incidente. Poi però ha ammesso: ''È stata una frode''. A parlare è stato il legale del gruppo in una nota al New York Times: ''Assumeremo tutte le misure necessarie per assicurarci che i dati siano cancellati una volta per tutte''. Per Cambridge Analytica tutto è iniziato nel 2014, quando si è assicurata un finanziamento da 15 milioni di dollari dal finanziatore repubblicano Robert Mercer e ha attirato l'attenzione di Steve Bannon con la promessa di strumenti per identificare la personalità degli elettori americani e influenzare il loro comportamento. L'unico problema era che la società non aveva i dati su cui lavorare. Cambridge Analytica, tramite il suo amministratore delegato Alexander Nix, ha più volte ribadito di non aver mai ottenuto dati di Facebook. Successivamente è però tornata sui suoi passi e ha scaricato la responsabilità di Aleksandr Kogan, accademico russo-americano, dal quale ha acquistato i dati. In Gran Bretagna Cambridge Analytica è oggetto di indagini da parte del parlamento e delle autorità di governo per possibili violazioni della privacy e sulle accuse di aver lavorato illegalmente sulla campagna per la Brexit. 

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Facebook Affonda a Wall Street


 Pesa lo scandalo di Cambridge Analytica 
Downing Street allarmata per abuso dati personali 

Facebook crolla a Wall Street dopo lo scandalo Cambridge Analytica. Il prezzo delle azioni del 're' dei social network è precipitato in apertura a Wall Street, influenzato dalle rivelazioni sulla violazione di milioni di profili di elettori americani da parte della società Cambridge Analytica. Pochi minuti dopo l'avvio delle contrattazioni alla Borsa di New York, il titolo ha iniziato a scendere in picchiata dove arriva a perdere il 7,50%,  trascinando giù il Nasdaq, l'indice dei principali titoli tecnologici. Facebook sconta sul mercato il clamore sollevatosi intorno a Cambridge Analytica, la società britannica di analisi e consulenza che avrebbe ottenuto in violazione delle regole stabilite dalla stessa piattaforma i dati di 50 milioni di utenti. I contorni della vicenda hanno iniziato a definirsi nel fine settimana, con la pubblicazione di due inchieste da parte di Observer e New York Times, e lo stesso social network ha proceduto già sabato a sospendere i profili dell'azienda di analisi dati e di Strategic Communication Laboratories (Scl), il gruppo al quale fa capo. A chiedere ulteriori chiarimenti, secondo quanto riportano i media americani, sono d'altra parte diversi membri del Congresso, da James Lankford dell'Oklahoma a Jeff Flake dell'Arizona. Un coro al quale si è unita anche la commissaria europea Vera Jourova, che via Twitter ha parlato di una vicenda "orripilante, se confermata", sottolineando che "non vogliamo questo nella Ue". Mentre la numero uno dell'autorità britannica per la protezione dei dati, la Information Commissioner Elizabeth Denham, ha emesso una nota per confermare che è in corso una indagine "complessa e di vasta portata". 

Downing Street intanto esprime "preoccupazione" per la notizia sulla violazione dei dati personali di 50 milioni di utenti di Facebook filtrati alla società di consulenza britannica. La vicenda ha spinto il governo di Londra ad anticipare il progetto d'interventi normativi più stringenti per la tutela dei dati sulle piattaforme online e per "mettere fine al far west dei giganti del Web". Secondo il 'Daily Telegraph', un Portavoce della May avrebbe riferito che la premier sarebbe favorevole ad una indagine ad hoc dell'Autorità di controllo del Regno sull'informazione sulle denunce della 'gola profonda' di Facebook che ha svelato il caso Cambridge Analytica.  "L'affermazione per cui si è trattato di una violazione dei dati è completamente falsa", ha precisato ieri sul sito di Facebook il vice presidente, Paul Grewald, mettendo l'accento sul fatto che le informazioni erano state ottenute lecitamente da Aleksandr Kogan, professore alla Università di Cambridge, attraverso la app "thisisyourdigitallife", che circa 270 mila utenti avevano scaricato liberamente per ottenere predizioni sulla propria personalità, fornendo in cambio accesso ad alcuni dati personali e preferenze, oltre a informazioni più limitate relative agli amici che avevano mantenuto aperte le impostazioni di privacy. Ad andare contro al regolamento, secondo la ricostruzione di Menlo Park, sarebbe stata la cessione nel 2015 di tali dati a una parte terza, Scl appunto, che in questi anni è balzata agli onori delle cronache per aver lavorato sul web alla campagna elettorale di Donald Trump e a quella referendaria in favore della Brexit. 

Una volta appreso quanto accaduto, sempre nel 2015, Facebook aveva rimosso la app e chiesto la distruzione dei dati, confermata dalla stessa Cambridge Analytica. "Diversi giorni fa, abbiamo ricevuto report che, al contrario di quanto riportato nelle certificazioni che ci erano state date, non tutti i dati sono stati distrutti", scrive ora Grewald, "ci stiamo muovendo aggressivamente per determinare l'accuratezza di queste affermazioni". "Cambridge Analytica rispetta pienamente i termini di servizio di Facebook ed è attualmente in contatto con Facebook in seguito alla recente comunicazione per cui ha sospeso l'azienda dalla piattaforma, in modo da risolvere la questione il più presto possibile", prova intanto a chiarire sul proprio sito la società britannica, spiegando di aver firmato nel 2014 un contratto per un progetto di ricerca su larga scala negli Stati Uniti con la società Global Science Research, che si era impegnata a ottenere dati solo in accordo con lo Uk Data Protection Act e ottenendo il consenso informato. "Quando successivamente divenne chiaro che i dati non erano stati ottenuti da Gsr in linea con i termini di servizio di Facebook, Cambridge Analytica ha cancellato tutti i dati che aveva ricevuto", si legge sul sito, nel quale la web agency sottolinea che nessun dato proveniente da Gsr è stato utilizzato "nell'ambito dei servizi forniti nell'ambito della campagna presidenziale di Donald Trump". 

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sabato 17 marzo 2018

Sul Dark Web la nostra identità vale 1.200 Dollari


Tutto ha un prezzo sul dark web 

La tua identità online potrebbe valere circa 1,200 dollari. Questa è la cifra che emerge secondo una nuovissima ricerca sulla vendita illecita di informazioni personali rubate dal dark web.  Anche se non sorprende sapere che le informazioni riguardanti le carta di credito sono tra le più scambiate, è una novità apprendere che i truffatori stanno hackerando anche account Uber, Airbnb e Netflix e li vendono per non più di 10  dollari ciascuno. Un account Facebook può valere 5 dollari, quello Netflix 8 euro, il profilo di Apple tra quelli con più valore, 15 dollari. Fino ad arrivare al massimo del profilo PayPal, l'app di trasferimento di soldi, quotato in media 250 dollari. 


È il valore dei nostri dati sul dark web, il web sommerso dove si vendono anche droga e armi. A stilare una classifica è la società Top10VPN.com, secondo cui la somma dei dati di tutti i servizi a cui siamo iscritti - dai social network ai profili per il commercio elettronico tipo Amazon o eBay a quelli per la consegna del cibo - possono valere in totale 1.200 dollari al mercato nero del web. Il sito ha analizzato i principali mercati del dark web, come Dream, Point e Wall Street Market, e ha stilato un vero e proprio listino di ciascun tipo di account venduto, 
affiancato dal relativo prezzo medio d'acquisto.


 Il prezzo di ciascun tipo di profilo - spiega il sito - varia a seconda di un numero di fattori come i soldi disponibili nei conti, la facilità di accesso alle informazioni 
e la capacità di dirottare l'account per truffe e altri usi. 


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Berners-Lee: poche piattaforme dominanti trasformano il web in un'arma


Tim Berners-Lee, inventore del web, nel giorno del 29esimo compleanno della sua creazione lancia l’allarme: "Un anno importante perché per la prima volta più della metà della popolazione mondiale è connessa", ma "Il web cui ci si connetteva qualche anno fa non è quello che i nuovi utenti trovano oggi. Quello che un tempo era una ricca selezione di blog e siti, è stato compresso sotto il grande peso di poche piattaforme dominanti", afferma. Questa concentrazione permette a "una manciata di società di controllare quali idee e opinioni vengono viste e condivise" 
e di "trasformare il web in un'arma" .

L’informatico britannico è sempre stato consapevole, come ha spesso ripetuto, che la sua creazione sin dal principio contenesse pregi e difetti, ma forse neanche lui avrebbe potuto immaginare la direzione che avrebbero preso gli eventi. La sua idea di “piattaforma aperta che consente a chiunque di condividere informazioni, accedere a nuove opportunità e collaborare superando i confini geografici” deve vedersela ora con sfide tutte nuove.


Il problema delle Fake News
La diffusione di informazioni false, veicolate in maniera tale da influenzare opinioni, dibattiti, persino elezioni, ha ormai preso sempre più piede, anche a causa dei sistemi pubblicitari utilizzati dalle grandi piattaforme digitali, come Google o Facebook, per catturare l’attenzione degli utenti. In alcuni casi queste piattaforme offrono agli utenti che generano contenuti (veri o falsi che siano) una percentuale delle entrate pubblicitarie che si creano.


Un sistema che, lo si è visto in molti casi, ha generato dei paradossi. Solo per citare un esempio, recentemente alcuni teenager macedoni hanno prodotto e messo in rete fake news che sono poi state rilanciate su Facebook e indicizzate su Google, generando un introito grazie alle entrate pubblicitarie. Un mondo fuori controllo, che sfugge alle regole semplicemente perché le regole non ci sono. «Il sistema sta fallendo – spiega Berners-Lee – il modo in cui sono strutturate le entrate pubblicitarie non risponde affatto all’obiettivo di promozione della verità e della democrazia che avevo immaginato quando ho sviluppato il World Wide Web. Quindi sono molto preoccupato».


Lo scorso marzo, prima ancora che uscisse la notizia secondo cui la Russia avrebbe cercato di influenzare le elezioni americane attraverso contenuti a pagamento su Facebook, Google e Twitter, Berners-Lee aveva chiesto pubblicamente una regolamentazione univoca per prevenire un uso non etico e parziale della pubblicità su Internet. Un grido caduto nel vuoto, a giudicare dagli eventi che sono seguiti. Ma forse non è troppo tardi per tornare indietro: «Siamo talmente abituati ad essere manipolati da questi sistemi da pensare che sia così che funziona Internet. Invece dovremmo pensare a come dovrebbe essere e a come potremmo migliorarlo».


Net Neutrality
Il sistema si dovrebbe basare sulla cosiddetta “net neutrality”, ovvero l’idea che i provider di servizi Internet garantiscano lo stesso trattamento dei dati di tutti, assicurando che le grandi aziende come Comcast, AT&T o Verizon non li utilizzino in maniera selettiva per i propri scopi commerciali. Una regola che è stata spesso disattesa, come quando AT&T ha bloccato il funzionamento di Skype su iPhone per garantirsi maggiori entrate grazie alle telefonate classiche, o quando Verizon ha bloccato Google Wallet perché stava sviluppando un proprio servizio di pagamento tramite smartphone. «Questi potenti provider controllano l’accesso a Internet e costituiscono una minaccia se gli viene permesso di bloccare dei servizi per i propri interessi commerciali – racconta Berners-Lee –. La connettività fa ormai parte delle nostre vite, è un bene come l’acqua, 
e a nessuno può essere negato l’accesso all’acqua».


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Pratiche Commerciali Sleali, la Francia fa Causa a Google e Apple


Il ministro dell'Economia francese, Bruno Le Maire,
 ha annunciato che lo Stato citerà in giudizio i giganti tecnologici americani, Apple e Google, per "pratiche commerciali sleali" 
e ha aggiunto che la sanzione potrebbe ammontare a "diversi milioni di euro".   "Io credo in un'economia fondata sulla giustizia e porterò Google e Apple davanti al tribunale di Parigi per pratiche commerciali sleali", ha reso noto intervistato dall'emittente RTL. 

 L'accusa: termini contrattuali "abusivi" Parigi intende punire quelli che ha definito termini contrattuali "abusivi" imposti dai giganti della tecnologia alle startup e agli sviluppatori. Le Maire ha spiegato alla radio di Rtl di essere stato informato che Apple e Alphabet Google hanno imposto unilateralmente i prezzi e le modifiche del contratto agli sviluppatori che vendono software su Google Play e sull'App Store di Apple. "Per quanto potenti siano, Google e Apple non possono trattare le nostre startup e i nostri sviluppatori come fanno", ha detto Le Maire. L'autorità francese contro le frodi ai consumatori, la Dgccrf, ha confermato in una successiva dichiarazione di aver iniziato un'azione legale contro i due gruppi tecnologici statunitensi. La replica di Google "Con oltre 1000 download al secondo, Google Play è un ottimo strumento per gli sviluppatori Europei di app, piccoli e grandi, inclusi molti in Francia, per distribuire le loro app a persone di tutto il mondo. Abbiamo collaborato con la Dgccrf (Direction générale de la concurrence, de la consommation et de la répression des fraudes) su molti temi negli ultimi anni, incluso Google Play.  Riteniamo che i nostri termini rispettino le leggi francesi e sosterremo il nostro caso in tribunale".

 La replica di Apple "Siamo orgogliosi di avere costruito relazioni solide con decine di migliaia di sviluppatori in Francia, che hanno guadagnato 1 miliardo sull’App Store. Molti di questi talentuosi sviluppatori hanno dato vita alle loro aziende con 1 o 2 persone e hanno realizzato il loro sogno, vedendo aumentare i loro team che offrono app agli utenti di 155 nazioni. Questo è stato possibile grazie all’investimento Apple in iOS, negli strumenti per sviluppatori e nell’App Store. Apple ha sempre insistito sulla privacy e sicurezza dell’utente e non ha accesso alle transazioni con app terze parti. Non vediamo l’ora di raccontare la nostra versione alle corti francesi e chiarire questo fraintendimento. Nel frattempo, continueremo ad aiutare gli sviluppatori francesi a realizzare i propri sogni e assistere gli studenti francesi nell’apprendimento della programmazione
 offrendo il nostro programma di coding". 

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Antitrust, multa da 50mila euro a WhatsApp



Antitrust, 
multa da 50mila euro a WhatsApp:
 violati obblighi informativi

L'Antitrust ha multato Whatsapp per 50mila euro per inottemperanza nella violazione di alcuni obblighi informativi agli utenti. Lo ha reso noto l'Authority, spiegando che l'app di messaggistica non avrebbe "dato esecuzione all'ordine di pubblicazione dell'estratto del provvedimento emesso nei suoi confronti a maggio 2017, con il quale è stata accertata la vessatorietà di alcune clausole dei Termini di Utilizzo dell’applicazione WhatsApp Messenger". In particolare, WhatsApp avrebbe "consapevolmente omesso" quanto disposto dall’Autorità, cioè "la pubblicazione del citato documento nella homepage del proprio sito web e la contestuale notifica in app, da inviare a tutti gli utenti WhatsApp italiani, contenente il link alla pubblicazione medesima".


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Antitrust Sanziona Telecom Italia per Pratica Commerciale Ingannevole



Antitrust sanziona Telecom Italia per 4,8 milioni Intervento dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato su Telecom Italia Spa, multata per pratica commerciale ingannevole nei confronti dei consumatori sulla fibra ottica. L'azienda di telefonia ricorre al Tar .

L'Antitrust ha sanzionato Telecom Italia S.p.A. per un ammontare complessivo di 4,8 milioni di euro per pubblicità ingannevole relativamente alla fibra ottica. Omettendo un'informazione corretta sui precisi termini dell'offerta proposta, l'azienda ha tratto in inganno i consumatori.  Secondo l'Autorità diretta da Giovanni Pitruzzella, la pratica commerciale posta in essere da Telecom Italia ha violato le norme contenute nel Codice del Consumo. "Nelle campagne pubblicitarie inerenti l'offerta commerciale di connettività in fibra ottica (cartellonistica, sito web, below the line e spot televisivi), Telecom Italia, a fronte del ricorso a claim (promesse) volti a enfatizzare l'utilizzo integrale o esclusivo della fibra ottica e/o il raggiungimento delle massime prestazioni in termini di velocità e affidabilità della connessione, ha omesso di informare adeguatamente i consumatori - si legge nella nota diramata dall'Agcm - circa le reali caratteristiche del servizio offerto e le connesse limitazioni". 

Si tratta in particolare dei limiti geografici di copertura delle varie soluzioni di rete, le differenze di servizi disponibili e di performance in funzione dell'infrastruttura utilizzata per offrire il collegamento in fibra. Per l’Autorità di Piazza Verdi, in conseguenza di tale condotta omissiva e ingannevole, il consumatore, a fronte dell’uso del termine onnicomprensivo “fibra”, non è stato messo nelle condizioni di individuare gli elementi che caratterizzano, in concreto, l’offerta. Le diverse campagne pubblicitarie oggetto del provvedimento hanno, inoltre, secondo l'Antitrust, "omesso o indicato in modo non sufficientemente chiaro che, per raggiungere le massime velocità pubblicizzate, fosse necessario attivare un'opzione aggiuntiva a pagamento. Tale circostanza ha, dunque, vanificato l'indicazione del prezzo dell'offerta contenuta nei claim-promesse principali".  L'assenza di "un'informazione chiara sulle caratteristiche e la qualità del servizio impedisce dunque al consumatore di prendere una decisione consapevole sull'acquisto dell'offerta in fibra. 

La condotta ingannevole e omissiva risulta assumere particolare rilievo in considerazione dell'importanza del settore economico interessato, caratterizzato da modelli di consumo ed esigenze degli utenti che stanno mutando radicalmente a fronte di una crescente offerta di servizi digitali", ha deliberato l'Antitrust. Inoltre l'Autorità ha sottolineato la gravità che discende anche dalla posizione di pesante asimmetria informativa in cui si trova il consumatore di fronte all'acquisto di servizi le cui caratteristiche, di natura complessa, non sono di chiara ed immediata comprensione per l'utente. La società sanzionata ha subito reagito facendo sapere che ricorrerà al Tar del Lazio. Ritenendo del tutto infondata la decisione dell’Autorità Antitrust sia nel merito sia nella quantificazione della sanzione, anche a fronte della fattiva collaborazione che l’azienda ha mostrato durante tutto l’iter del procedimento con l’accoglimento dei suggerimenti proposti dall’Autorità, ha deciso di impugnare la sanzione amministrativa. 

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