PEC (posta elettronica certificata):
un fallimento obbligatorio per legge
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Una storia tutta italiana quella che ha portato all’obbligatorietà della PEC: un fallimento, peraltro, già annunciato nelle stesse premesse da cui ha preso le mosse questo strumento.
Non c’è bisogno di ricordare che la Posta Elettronica Certificata (meglio nota con il suo acronimo: PEC) è un sistema che consente al mittente dell’email di ottenere – al pari di una raccomandata con avviso di ricevimento – la prova legale (in forma elettronica) dell’invio e della consegna di quanto inoltrato, con la specifica indicazione della data e ora.
Definita dal ministro Brunetta, all’alba della sua approvazione, come “la più grande rivoluzione culturale mai prodotta in questo Paese dal dopoguerra”, la posta elettronica certificata è stata però un vero fallimento. Non ci voleva molto per capirlo: era già scritto nel suo stesso DNA prima ancora che nascesse. E questo perché si è deciso, a suo tempo, di sposare una tecnologia limitata e obsoleta. Come tutti gli “affari” milionari italiani, è meno doloroso credere che, dietro le scelte insensate del parlamento, vi sia qualche nuovo business anziché la pura idiozia dei nostri rappresentanti.
Introdotta con una serie di interventi legislativi tra il 2005 e il 2009 [1], la PEC è stata da poco resa obbligatoria ai professionisti e alle imprese: segno di un’inguaribile fede, da parte delle istituzioni, nella sua utilità. Ma, a conti fatti, nessuno ancora la usa o la trova comoda. Avvocati, commercialisti, ingegneri, società: tutti continuano a valersi dei loro tradizionali account di posta elettronica, spesso legati a un dominio “ad hoc”, acquistato in modo da collegare il proprio nome alla ragione sociale (anche per una questione di marketing). È più identificativo l’account “rossi@lavatriciperfette.spa.com” che non “rossi@pec.assolavatrici.it”.
Non bisogna tralasciare neanche il problema della scarsa preparazione del personale. L’altro giorno ho inviato una Pec all’U.r.p. di un Comune, con la richiesta di un certificato di residenza. Non avendo ricevuto risposta, dopo qualche giorno ho telefonato alla segreteria, dove una persona, con tono piuttosto imbarazzato, mi ha invitato a inoltrare di nuovo la domanda. Ma questa volta con un fax.
Peraltro, seppur formalmente, non tutti gli enti sono dotati di Pec. È stato, per esempio, il caso della Regione Basilicata, contro cui ci si è visti obbligati a intraprendere, per fini risarcitori e con felice risultato, una apposita class action.
Tra le tante critiche di chi è costretto a sborsare diverse decine di euro all’anno per un servizio che non usa, l’ultimo attacco giunge ora dall’Istituto Superiore delle Comunicazioni e Tecnologie dell’Informazione (Iscti), dipartimento del Ministero dello Sviluppo. Sandro Mari, ingegnere dell’Iscti, denuncia: “La Pec non è inter-operabile e, proprio perché non basata su uno standard internazionale, non è integrata in alcuni software di gestione”. Il che, in parole povere, significa che la posta certificata può essere utilizzata solo all’interno dei confini nazionali e non si interfaccia con il resto del mondo: essa, insomma, dialoga solo con un’altra Pec o con gli uffici pubblici nazionali (ammesso che la sappiano utilizzare). L’esatto opposto della filosofia globale che invece sposa Internet. Una critica che già da molto tempo aveva cavalcato l’associazione “Cittadini di Internet”, per bocca del proprio presidente, Massimo Penco.
Alternative ce ne sono, riferisce Mari: la Ietf (International Engineering Task Force, l’unica autorità internazionale demandata agli standard su Internet), già molto tempo prima che nascesse la “Pec italiana”, ha determinato uno standard di comunicazione certificata universale con le medesime caratteristiche della Pec ma ad essa parallelo, tuttavia sicuro, non oneroso e basato su uno standard internazionale. Inoltre, a differenza della Pec, non implica la creazione di un sistema centralizzato per la gestione degli aspetti di sicurezza. Tale standard può essere implementato utilizzando i normali software commerciali di gestione della posta.
Allora, perché il governo avrebbe voluto necessariamente sposare il sistema della Pec? Una storia forse molto simile a quella degli incentivi sul fotovoltaico e che lascia dietro di sé la solita scia di puntini sospensivi del Belpaese.
L’appalto della Pec fu affidato alla società Poste Italiane per la modica (si fa per dire) cifra di 50 milioni di euro: un euro per ogni italiano che, secondo le ottimistiche previsioni del governo, avrebbe dovuto richiedere l’attivazione, alle Poste, di un indirizzo Pec. Cosa che ovviamente non è avvenuta: sono solo poco più di cento mila i cittadini che l’hanno chiesta e attivata (chissà poi quanti di questi effettivamente la utilizzano).
Il calcolo, in verità, è già di per sé sbagliato. Gli italiani sono in tutto 60 milioni e, in questi 60 milioni, sono compresi anche i minori di 18 anni (che quindi non saprebbero che farsene di una posta certificata) e gli anziani che neanche sanno cos’è un’email. Quindi, a conti fatti, i potenziali utilizzatori di Pec sono ben meno di 50 milioni: mentre tale invece è la cifra “regalata” a Poste Italiane. È ovvio che il calcolo del corrispettivo a favore di Poste Italiane è stato fatto con un’approssimazione per eccesso ben sopra le ragionevoli aspettative. Peraltro, ci sono anche altri gestori, oltre a Poste Italiane, capaci di erogare il servizio Pec (gli ordini professionali, le camere di commercio, svariate società private).
Già il contenuto del bando per l’appalto della Pec lasciava pensare a un provvedimento “ad personam”, da cui era facile intuire chi sarebbe stato l’aggiudicatario. Tra i requisiti richiesti vi era infatti la disponibilità, da parte dell’eventuale vincitore, di offrire “una rete di sportelli fisici in grado di assicurare un punto di accesso in almeno l’80% dei comuni italiani con popolazione residente superiore a 10 mila abitanti, con orario di apertura al pubblico, dal lunedì al sabato, 9.00-13.00”.
A riguardo, non mi vengono in mente altri soggetti in grado di offrire tale rete, oltre alle banche e, appunto, alle Poste Italiane.
Fare marcia indietro [2] ? Si, è sempre possibile. Da noi, ogni governo si caratterizza perché, nei suoi primi due anni, non fa che spazzare la polvere dei precedenti regimi. Ma la verità è che ormai i buoi sono scappati, il denaro pubblico è “speso”, chi doveva abbonarsi al servizio lo ha già fatto e tutto è impostato su questo regime. Almeno finché l’Italia non si ricorderà che fa parte dell’U.E. e che, pertanto, dovrà adattarsi al nascente standard comunitario per la certificazione della posta elettronica, uno standard valido e uguale per tutti gli stati membri, anche al di fuori degli stretti confini nazionali.
Ma intanto chi doveva mangiare, si sarà alzato da tavola con la pancia piena…
[1] Art. 15, comma 2, L. 15.03.1997 n. 59; Dpr 11 febbraio 2005 n. 68; D.M. 2 novembre 2005; Codice della Amministrazione Digitale (D.lgs. 82/2005); L. 2/2009 (art. 16, comma 6, 7, 8, 9, 10); Decr. Pres. Cons. Min. 6 maggio 2009; D.l. 1 luglio 2009 n. 78.
[2] Il Governo, dietro la pressione di una denuncia presentata alla Commissione Europea di Cittadini di Internet Adiconsum ed ANORC, aveva tentato una marcia indietro, quanto meno dando un’alternativa alla stessa Pec (cfr. legge n. 2 /2009, art. 16, comma 6). Oltre infatti alla Pec, come originariamente intesa dal legislatore italiano con D.L. 7 marzo 2005, n. 82 e successive modificazioni, veniva fornita l’alternativa di “analogo indirizzo di posta elettronica basato su tecnologie che certifichino data e ora dell’invio e della ricezione delle comunicazioni e l’integrità del contenuto delle stesse, garantendo l’interoperabilità con analoghi sistemi internazionali” (cfr. legge n. 69 del 18 giugno 2009, art. 35).
DI Angelo Greco
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